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Cinema e progresso

Docufilm

Varchi attivi

Intervista ad Angelo Malinconico

Barbara Massimilla

Varchi attivi è un docufilm che tutti dovrebbero vedere perché descrive un approccio autentico di altissima professionalità e umanità alla sofferenza psichica. Inaugurerà la 7 edizione della rassegna cinematografica S-Cambiamo il Mondo, il primo giugno 2024, presso la Casa del Cinema a Roma. Una esperienza di cura che dovrebbe costituire un modello per molte Istituzioni psichiatriche. Il film è anche una invocazione poetica a restare umani, a prendersi cura dell’altro con competenza e umiltà. Ne parliamo con lo psichiatra psicoanalista junghiano Angelo Malinconico, colonna portante di tale ricerca in Molise. Da quale idea nasce questo progetto cinematografico?

Il Docufilm “Varchi attivi” nasce da un’idea del presidente della Cooperativa “Nardacchione”, Alessandro Prezioso e del regista, Pasquale D’Imperio. La cooperativa gestisce da circa 40 anni le Comunità Terapeutiche dell’area del Basso Molise, incardinate nei Servizi per la salute mentale che ho fondato e diretto fino a pochi mesi fa in quel territorio. Da un “omaggio” a un modello locale da tutti noi incarnato, il docufilm è gradatamente diventato una riflessione allargata, fino a coinvolgere Benedetto Saraceno (già direttore del Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze dell’OMS), Silvano Tagliagambe (già professore di filosofia in varie università) e altri personaggi della cultura post-centottanta. Si è quindi trasformato in una riflessione sulle luci e sulle ombre della 180 stessa e una proposta di teorie e prassi di psichiatria sociale, a partire dalla connessione stretta (oggi si parla di sharing) tra servizio pubblico e privato sociale, co-costruttore alla pari dei processi di cura, perseguendo la responsabilità eticamente ineludibile, in opposizione al potere preteso e agìto dei Servizi.

 

Casacalenda

 

Nelle esperienze che ho fondato e condotto ho sempre cercato di evitare che le figure cosiddette tecniche del Centro di Salute Mentale fossero delegate in solitudine ad attuare i progetti di cura, ma che partecipassero ai progetti abilitativi con una presenza fisica costante nelle strutture territoriali. Solo così la storia e le storie, le geografie e le peculiarità antropologiche, sociali, economiche, possono essere esplorate con delicatezza, rendendo compiutamente esprimibili valenze terapeutiche profondamente laiche, fuori da ecclesie che già sanno tutto, fondamentaliste.

Definisco nuovi setting tali luoghi, sinergie e modalità sempre dinamiche di interazione tra i differenti saperi in campo. Se è scontato che tutti gli operatori non possano andar bene per tutti i progetti, è altrettanto vero che occorre sforzarsi per attivare una continuità nei vari segmenti di affrancamento del paziente grave. E i Servizi, contenitori di esperienze, richiedono sforzi mutevoli, umiltà nei ripensamenti, a volte persino veri e propri cambiamenti bruschi di rotta, onde evitare le scissioni nette e favorire processi di cura sempre più de-medicalizzati.

 

Non sono meno impegnativi gli sforzi necessari da parte del privato sociale: evitare di progettarsi semplicemente in termini di posto-letto, mettendo piuttosto a disposizione se stesso come sapere capace di accompagnare il paziente in un quotidiano utile, ricontrattando continuamente ruoli e finalità; non rincorrere parodie di interventi tecnici, confondendo la naturale relazionalità ricca con l’acquisizione di poteri decisionali presuntuosamente autonomi; rendersi realmente e umilmente disponibile verso le varie forme di supervisioni concordate.

Da questo punto di vista, diventa centrale esaminare quali processi le azioni delle reti di cura – siano esse pubbliche, del privato sociale o anche del privato-privato – inneschino nel contesto sociale e comunitario, e come esse interagiscano con quei processi che in tale contesto autonomamente si producono. Si tratta, allargando l’orizzonte, di un esame indispensabile per ripensare culturalmente le discipline psicologico-psichiatriche e per sottrarle agli attuali processi di istituzionalizzazione, che le confinano in un’ambulatorietà diagnostico-terapeutica e rischiano una neo-manicomializzazione decentrata e parcellizzata.

 

Angelo Malinconico

 

Cosa è cambiato dalla legge 180 riguardo alla cura delle malattie psichiatriche? che debito abbiamo con l’esistenzialismo gramsciano di Basaglia così come viene definito nel film?

Da più parti si parla di “modello 180” in crisi. In realtà il modello e tutto l’apparato culturale ed etico che lo sostiene sono tutt’altro che defunti. Son cambiate però tante cose: il depauperamento delle risorse; appiattimenti e ingabbiamenti in scelte votate a teorie, algoritmi e prassi presunto-generalizzabili; subordinazione a una certa politica (e con essa a una parte della magistratura); principalmente un netto privilegiare del perseguimento delle “vie brevi” in ogni intervento. Con ciò rispondo anche alla seconda parte della domanda: il debito è verso chi ha sempre proposto la centralità del soggetto e non l’omologazione, la complessizzazione curiosa e progettuale e non la semplificazione uniformante. Un riferimento tra tanti a Gramsci, che afferma nei suoi Quaderni dal carcere, “Semplificare significa snaturare e falsificare. (…) Il mondo è una unità, si voglia o non si voglia”.

 

Quale cambiamento innovativo sul piano culturale e umano è necessario oggi rispetto alla residenzialità?

Tra le innumerevoli proposte che porto avanti da oltre 40 anni, ne scelgo solo alcune: una stretta interconnessione, coerente e umile, tra le residenze e tutti i servizi del DSM; una libertà (seppur coordinata dal servizio pubblico) di muoversi sul territorio su cui insistono le residenze, cercando ogni risorsa sociale, economica, culturale utile al progetto complessivo per il soggetto/paziente; autorevolezza riconosciuta nella co-costruzione del Progetto Terapeutico Individualizzato dal momento dell’ingresso in Comunità, fondata con quella che proprio con Benedetto Saraceno definivamo già 35 anni fa “la competenza nelle pratiche”; l’attitudine al confronto con altre esperienze di altri territori e con pratiche di supervisione di marca psicodinamica.

 

Benedetto Saraceno

 

Perché il modello di cura dovrebbe essere dinamico? cosa significa applicare microdeterminanti sociali per cambiare la vita delle persone?

E’ avvilente l’atteggiamento dei tanti che professano una sorta di abolizione dell’inconscio ope legis, perseguendo l’espulsione assoluta del pensare simbolico, netti viraggi verso la semplificazione delle dinamiche inconsce, l’irrigidimento in atti “terapeutici” che andrebbero bene per chiunque, l’ossessione delle “valutazioni” presunto-oggettive, l’esaltazione empirica di una sorta di pensiero della cosa-in-sé, specie in contesti in cui la psicopatologia grave imporrebbe costanti processi di mediazione, proprio per l’esuberante manifestazione di un inconscio a cateratte aperte.

Naturalmente nessuna fantasia di “servizi psicoanalitici”, per carità. Ma non si può negare che non esiste una psiche al di fuori di un inconscio condizionante. Questo vale a maggior ragione per portatori di patologie gravi e per i gruppi che se ne occupano. A entrambe le componenti è possibile restituire (o donare ex-novo) senso, significato e autonomia solo attraverso una ricerca comune, in cui curato e curante si pongano curiosi e umili al servizio del mito di Chirone, guaritore ferito (noi con loro, noi come loro).

I semplificatori seriali hanno un altro vezzo, oltre quello del pensiero/modello/prassi unici: la creazione di gerghi, fantasticando di poter assicurare terapia confondendo rigidità del modello con il rigore scientifico (quale scientificità? decisa da chi?), etichette pseudo-identificanti con la reale fruibilità da parte di chi soffre. Allora nascono le espressioni gergali: dallo psicoanalitichese al cognitivese, al valutativese, fino al più recente recoverese o al recentissimo sharinghese (qualche giorno fa un collega mi diceva con ironia ben accetta: “ora ti chiamerò dr. Sharer; tu connettore ostinato della salute mentale!”). La Therapeia autentica è altra cosa dai gerghi.

Per rispondere alla seconda parte della domanda, dico semplicemente che finalmente si pone attenzione ai cosiddetti fattori terapeutici aspecifici (o determinanti sociali). Mi riferisco al “curare i luoghi di cura”, attraverso l’attenzione alle dinamiche istituzionali, al “calore” del luogo di cura, alla fiducia degli operatori, all’attenzione all’accogliere, all’umiltà nel non sentirsi, nessuno, portatore del verbo. Figuriamoci che già nel 1979, dopo un’articolata ricerca durata 7 anni, portata avanti a livello internazionale, l’OMS concluse il report affermando che “Il fattore più importante nell’efficacia del trattamento […] sembra essere un elemento intangibile, che può essere descritto come la sua atmosfera”. Più chiaro e “scientifico” di così…

 

Che spazi ha la psichiatria per una utopia ancora possibile?

Beh, rispondo riportando fedelmente le parole di Benedetto Saraceno che concludono il docufilm:

“Il futuro della psichiatria è quello di una psichiatria con sempre meno psichiatria e sempre più salute mentale; con sempre meno psichiatri e sempre più altri, che fanno esistere i processi di costruzione della salute mentale. Quindi con un ruolo protagonico delle Comunità, delle persone, dei malati. E un ruolo decentrato, umile, silenzioso, modesto, parsimonioso di una psichiatria che ha troppo da doversi fare scusare per potere, volere o pretendere un posto alto nella tavola della salute mentale”.

Accolgo incondizionatamente e appieno questa visione; non credo di dover, voler chiosare!

 

 

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