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Il monello

Tornate all’antico e sarete moderni

Salvatore Grimaldi

Quando ho accettato l’invito a contribuire al numero di EIDOS su cinema, film e progresso per condividere la mia esperienza professionale nei servizi sociali per l’infanzia, ho subito pensato al film “Il monello” di Chaplin. Mi sono però chiesto il tema è il progresso e io parlo di un film di oltre cento anni fa? Ma da amante della musica mi sono ricordato della frase attribuita a Giuseppe Verdi “Tornate all’antico e sarete moderni”. “Il monello” è un film del 1921, Chaplin lo rivide cinquant’anni dopo nel 1971 e cambiò alcune scene e aggiunse un commento musicale di sua composizione. Condivido qui la trama del film come lo ricordo non avendo voluto espressamente rivederlo. Una donna (colpevole di maternità come recita la didascalia originale) si vede costretta a lasciare il figlio neonato per strada con un messaggio sperando che qualcuno se ne occupi. Il bambino piange ma nessuno se ne prende cura tranne un vagabondo che lo prende tra le braccia e lo coccola. L’uomo cerca di darlo a qualcuno dei passanti (sia uomini che donne), ma nessuno lo accetta. Quindi decide di tenerlo e con molto affetto e molta creatività se lo porta a casa.  L’abitazione dove il vagabondo porta il piccolo che chiameremo monello si trova in un quartiere povero e degradato dove la gente vive di espedienti.

 

C’è molta violenza e un poliziotto di quartiere cerca di mantenere l’ordine. Il vagabondo fa di mestiere il vetraio e quando il bambino ha cinque anni lo prende a “lavorare” con sé. Il bambino deve tirare sassi e rompere vetri, così il vetraio vagabondo arriva poco dopo offrendo i suoi servizi per aggiustarli. Questa situazione va avanti fino a che il poliziotto di quartiere non comincia ad avere dei sospetti sul loro operato. Riappare la mamma (la donna colpevole di maternità) che nel quartiere fa beneficenza. Il bambino si ammala e il vagabondo chiama un dottore che visitandolo chiede al vetraio se si tratti di suo figlio. Il vagabondo dice di no e il dottore afferma che il bambino ha bisogno di attenzioni e cure e quindi attiverà i servizi sociali, che arrivano poco dopo e portano via il bambino. Il vagabondo cerca di reagire per tenerlo con sé e durante una sequenza acrobatica riesce a raggiungere la macchina dove c’è il bambino, lo prende e lo porta via. Decidono di non tornare a casa perché ormai sono stati segnalati e vanno a dormire al dormitorio pubblico. Nel frattempo, il medico e la donna preparano un messaggio per ritrovare il bambino promettendo una lauta ricompensa. Il custode del dormitorio pubblico attratto dalla lauta ricompensa, prende il bambino e lo porta ad un posto di polizia.

 

 

Il vagabondo la mattina si sveglia ormai da solo e triste, torna a casa ma non sale nell’appartamento ormai vuoto. Si addormenta e fa un sogno di sublime ironia: il quartiere è abitato da angeli perché ogni abitante grande o piccolo che sia ha un enorme paio di ali bianche. Si canta, si ride e si gioca ma anche qui a un certo momento emergono le ostilità e le violenze. Il vagabondo viene svegliato da uno che sembrerebbe un poliziotto ma è in realtà l’autista della donna (la mamma del piccolo) ormai diventata ricca. Il monello vive ora a casa sua dove non solo ha ritrovato la madre ma anche la felicità e ...il vagabondo. Chaplin nella sua filmografia ha sempre espresso un interesse per le tematiche sociali: sui problemi che riguardano l’infanzia abbandonata, o in altri film sull’ipocrisia del perbenismo, sul lavoro alienante o sul pericolo delle dittature politiche. Detto questo io non voglio minimamente fare un’interpretazione né dell’autore, né del film ma usare il film come spunto di una riflessione sulla figura dell’assistente sociale nell’ambito della mia esperienza nelle pubbliche istituzioni per l’infanzia. Proporrò due osservazioni: una teorica e una pragmatica; quest’ultima riguarda sempre il lavoro sociale è che in parte potrebbe essere quella che Chaplin ha descritto nel film. Cominciamo con la teoria: il famoso psicoanalista inglese Donald Winnicott (1896 - 1971) espresse il concetto di “tendenza antisociale” scrivendo più di un lavoro su questo tema e sulla sua origine.  La tendenza antisociale è intrinsecamente legata alla deprivazione sociale. Con deprivazione sociale si intende la perdita di un contesto fisico, relazionale ed emotivo; una perdita che viene vissuta con molta rabbia che può sfociare in comportamenti antisociali. Si ha quindi una interruzione, nella vita del bambino dopo la quale le cose non sono più come prima. Bisogna però distinguere la tendenza antisociale dal normale comportamento di sfida dell’essere umano e dalla delinquenza organizzata che ha per fine fondamentalmente la distruttività e il commettere reati.   Ribadisco che la tendenza antisociale è qualche cosa che si manifesta quando, durante l’infanzia, l’età evolutiva ma anche adulta, si verifica una un’interruzione una discontinuità o addirittura un fallimento.  

 

 

L’’individuo che ha sperimentato una relazione affettiva valida che si è interrotta esprime con il suo comportamento antisociale il desiderio di recuperare quello che ha perso. Si tratta quindi di una speranza che si rivolge alla società. Una società non   sufficientemente attenta o meno attenta ai problemi dell’età giovanile. Questo significa che la società è importante anche per il singolo individuo e deve dare delle risposte.  La tendenza antisociale è quindi qualcosa di vivo che diciamo pure disturba la società affinché quest’ultima possa dare la sua risposta. Torniamo al film: è come se il vagabondo vetraio e il monello stiano esprimendo una speranza di ottenere qualcosa che è mancato, potremmo anche sarcasticamente dire che finché rubano, finché rompono i vetri c’è speranza di ottenere una risposta.  Se potessi azzardare una battuta a partire dal film potrei dire che finché il monello rompe i vetri c’è speranza di trovare la mamma. Un bambino che è senza la mamma la cerca. Il film propone il lieto fine ma nella realtà non possiamo non considerare che laddove la cosiddetta criminalità organizzata recluta nuovi addetti c’è il rischio che il lieto fine non si avveri. La criminalità organizzata gioca proprio sulla perdita della speranza per forzare il passaggio ad un comportamento che supera e oltrepassa la tendenza antisociale di cui sopra. Oggi si parla molto di situazioni diciamo difficili o precarie alle quali la società tenta di rispondere, ma in che modo?  Torniamo un momento al film: appena saputo che il bambino è un orfanello e che il vagabondo non è suo padre, la società risponde con intervento istituzionale. Il funzionario e il suo aiutante autista vanno dal vagabondo per dire che il bambino ha bisogno di cure e attenzioni, che non può restare con lui ma deve essere portato in un idoneo istituto come direbbero i nostri giudici. Nel film il funzionario è arcigno, preoccupato più dalla burocrazia e dall’aspetto amministrativo della vicenda. Non valuta se il bambino abbia ricevuto attenzioni e cure.

 

 

Non è umanamente affettivo e non si rivolge al vagabondo direttamente ma attraverso il suo aiutante autista che è il solo a parlare con il vagabondo. Ora io non so se coloro che sono più esperti di filmografia sanno se esista qualche studio su come nei film venga presentata la figura dell’assistenza sociale, o dei servizi sociali. A me viene in mente un altro film: “Tutta colpa del paradiso” (1985) di Francesco Nuti.   Un papà appena scarcerato va all’ufficio dei servizi sociali per avere notizie di suo figlio che nel frattempo è stato adottato. Viene trattato molto male dall’assistente sociale (interpretata da Laura Betti), perché considerato pericoloso.  Proprio come nel “Il monello” il funzionario tratta male il vagabondo senza nemmeno rivolgersi a lui direttamente. Per me l’inquadratura della grossa scarpa rossa dell’assistente sociale che scende dal treno per andare ad avvertire i genitori adottivi del possibile arrivo del papà, è emblematica di come siano percepiti gli assistenti sociali e mi riporta alla mia esperienza professionale nei servizi per l’infanzia. Oggi questi servizi sono poco valutati e poco sostenuti. Sono scarsamente dotati di personale nonostante esistano delle tabelle programmatiche che impongono tanti addetti ogni tanta popolazione. E soprattutto il personale che all’inizio è anche formato, non viene sistematicamente aggiornato e non usufruisce di formazione continuata, come dovrebbe esserci quando si tratta di lavoro inerente alle difficoltà dell’essere umano e dell’umanità. Quindi è vero che c’è il rischio che le persone si induriscano e assumano degli atteggiamenti distanzianti e anaffettivi: come succede nei film sopracitati, dove diventa più importante sistemare una cartella piuttosto che avviare un rapporto umano. Questa situazione suscita in me una amarezza fortissima e crudele se penso che queste cose sono state denunciate anche più di una volta, e tanto tempo fa in un film. Concludo dicendo che a mio avviso spesso e volentieri nei film gli assistenti sociali vengono indicati come inadeguati e con una banale irriverenza.   Nell’ambito della mia professione ho sperimentato che gli operatori sociali sono persone qualificate e preparate ma spesso oberate di troppo lavoro, inserite in un organico quasi sempre insufficiente rispetto alle richieste. Corrono quindi il rischio del burnout non solo personalmente ma anche del servizio stesso. Da qui i loro atteggiamenti più attenti all’aspetto amministrativo che veramente rivolti all’umano. Mi sembra che purtroppo le cose dopo cent’anni funzionino ancora in questo modo e che quindi non ci sia stato molto “progresso”.    

(Grazie a mia figlia Cecilia Grimaldi che ha curato l’editing dell’articolo).

 


Titolo originale: The Kid

Paese di produzione: USA

Anno: 1921

Regia: Charlie Chaplin

Sceneggiatura: C. Chaplin

Fotografia: R.Thotheroh

Musiche: C. Chaplin

Cast: C. Chaplin, J.Coogan, E. Pulvirance, H. Bergman, T. Wilson, C. Reisner, L. Grey

 

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